Confidenze

Mi sedetti accanto a lui adagiando le mie gambe sulle sue, lo guardai con un’insolita luce negli occhi, attorno a noi il mondo pareva essersi silenziato inaspettatamente. Mi sentivo pronta, pronta a parlargliene, predisposta ad un ascolto.
E iniziai con l’esprimere quell’amore senza pari che provavo per la mia Milano: le sue larghe vie, la sua aria eccessivamente torrida o gelida, le primavere in fiore e gli autunni che come cartoline, dipingevano la città con colori aranciati caratteristici.
Amavo il ricordo dei Navigli di Porta Genova, amavo il mio passo repentino scandito dall’orario routinario nella trafficata Via San Vittore. Amavo il Caffè Carducci ad angolo tra Via San Vittore e via Carducci, che sorgeva alla base di un elegante gotico palazzo di cinque piani ai pressi della facoltà, il suo stile povero e dalle forme verticali gli conferiva grazia innata ed io spesso, durante i miei rientri, ero solita volgere lo guardo per ammirarlo.A pochi passi da lì, una delle più antiche chiese della metropoli: la basilica di sant’Ambrogio. Per una come me che alterna passeggiate attente a ciondolamenti occasionali, si poneva quasi sempre al centro della mia visuale. Lì, aleggiava bellezza, io almeno l’avvertivo. Quel maestoso quadriportico rettangolare che accoglieva la solenne basilica, le conferiva un’aria celeste, contrastante ai lussi e agli eccessi di Milano.
Amavo quella nobile semplicità, amavo la coerenza dello stile romanico interno ed esterno alla chiesa, l’assenza di mosaici, la povertà di statue e stampe. Mi sentivo piacevolmente accolta e spesso le domeniche mi rifugiavo lì ad assistere al rito latino-ambrosiano; percepivo la sensazione d’essere saldamente ancorata a qualcosa, o forse semplicemente stavo bene.
La leggerezza del mio essere errava senza meta, spesso scorgendo nuove stradine o accorciatoie: ero riuscita a rinvenire tre diversi percorsi con meta Duomo e ciascuno pur di non usufruire dei mezzi pubblici. Ho sempre avuto la presunzione di ritenermi più veloce, ma a volte altro non era che una sfida con me stessa, poiché essendo il più delle volte in anticipo che puntuale, non c'è mai stato alcun bisogno di accelerare i tempi.
Riconoscevo d’essermi abituata senza alcuna difficoltà a ritmi così diversi dai miei, talvolta correvo, senza che ce ne fosse alcun motivo. E probabilmente, proprio per tale ragione ne ero affascinata.
Quella città riuscivo a sentirla mia, mia come piccole e rare cose sento appartenermi.
Respiravo a pieni polmoni il profumo delle lunghe distese all’inglese del polmone verde della città, Parco Sempione, situato proprio alle spalle del Castello Sforzesco - godendomi con un buon compagno di viaggio la sua quiete.
Parevo un luccichio di chiffon e lustrini muoversi per le vie, trascinavo con me il calore primaverile anche in pieno gennaio e riuscivo abilmente a conciliare orari, lezioni, immancabili faccende domestiche giornaliere, esperimenti culinari, conferenze e svago. Forse è così che ci si sente ad essere completi, ma quando sei troppo dentro alle situazioni, finisci per perdere di vista il quadro generale e se mi avessero domandato cos’altro avessi potuto desiderare, la lista all’epoca pareva non avere fine.
Sono sempre stata ambiziosa, mettendomi sempre in gioco, puntando sempre ad un risultato migliore, ad un livello maggiore. L’ambizione però a volte acceca e così ti ritrovi a guardare senza vedere, vuoi,vuoi,vuoi, ma cos’è che davvero vuoi?


“C’è la sua foto di un anno fa che ha messo via perché non si piaceva
Ma a riguardarla adesso si accorge che era bella ma non lo capiva” 
La borsa di una donna - Noemi


Quel suo modo tenero e di sensuale abbandono alle mie parole, mi fece perdere il filo del discorso.
Sentivo essere il riflesso coerente dei miei pensieri e lui pareva essere ubriaco, ubriaco di parole.
Chissà in quale angolo della mia Milano si fosse smarrito; schiuse impercettibilmente le labbra e poggiò le mani sulle mie gambe, come a volerle accarezzare.
Bevvi l’ultimo sorso di whiskey, mi alzai  e porgendoli la mano lo trascinai fuori da quella sala.

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